In Occidente, all’indomani del fallito colpo di Stato orchestrato da alcuni settori delle forze armate nella notte fra il 15 e il 16 luglio 2016, sono molti gli osservatori che si sono domandati quale assetto politico si sarebbe istituzionalizzato in Turchia nell’immediato futuro. Al centro delle questioni vi era la portata delle misure repressive adottate per volontà del presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, e del Governo a guida AK Parti – la formazione politica di cui Erdogan stesso è uno dei fondatori. L‘epurazione avviata a livello istituzionale (forze armate, magistratura, sistema educativo e dell’informazione) sarebbe servita davvero a rafforzare la solidità democratica del sistema o, al contrario, avrebbe costituito la precondizione, impraticabile prima del tentato colpo di Stato, per affondarne anche la dimensione politica? Le incertezze che hanno avvolto la politica interna si sono estese anche alla sfera degli affari internazionali, con particolare riguardo alla crisi siriana, alla lotta contro il terrorismo curdo e, più in generale, alla questione curda; e, ancora, al riavvicinamento a Paesi quali Israele e la Russia, con cui negli anni addietro si era verificata una crisi nei rispettivi rapporti bilaterali, all’inasprimento delle relazioni con lo storico partner americano, alla disputa con l’Unione Europea sulla questione dei migranti.